L’angolo dell’ingegnere: “La cappella dell’amore”

Tanto tempo fa, quand’ero ancora bambino, avvicinandosi il tempo del Natale, da noi di Terra Nobile era costume radunarsi la sera presso la famiglia di riferimento, ovverosia quella della nonna materna. Per me, i miei fratelli e i miei cugini Gioacchinello e Corrado, era la casa della nonna Gaspara, al centro del paese, difronte alla chiesetta di San Gaetano, dove oggi si trova la farmacia D’agata. Era una bella casa terranea, con un piccolo terrazzo per stendere le robe e il resto del tetto a falde, in cui le ciaramire (le tegole tipiche di Sicilia) venivano nascoste da una veletta che faceva anche da grondaia e dava, a quelle casette basse, un che di slancio, al modo delle donne allorquando si mettono le scarpe col tacco per apparire più alte. La stanza d’angolo fra la Vittorio Emanuele e la Lucio Tasca era affittata allo zu Uzu (Corrado) Taccone, il papà di Pino ed Elivio, uno dei due barbieri del paese (l’altro era lo zu Paolo Cernigliaro); era questi un signore bassino, diversamente dai suoi fratelli ch’erano di stazza imponente, sulla fronte capelli radi che gli si alzavano a criniera, dietro le lenti spesse due occhi vispi che sondavano incessantemente la barberia e gli avventori, e una loquela accattivante, quasi si trovasse sul podio, con le sue ragioni discorsili che avvalorava affettando l’aria alla guisa di uno spadaccino, gli abili colpi inferti col rasoio in una mano e lo strappo di carta di giornale, colmo del sapone da barba fresco di rasatura, nell’altra.

Va detto, a scanso di equivoci, che il secondo nome di Portopalo, ossia Terra Nobile, non deriva dal fatto che vi abitassero famiglie di alto lignaggio, com’era diffuso nella vicina Noto; ma più semplicemente la presenza della fortezza spagnola, con la guarnigione posta a difesa della costa, aveva indotto il Senato di quella città a deliberare che la terra antistante l’isola fosse esentata dal pagare le tasse: Terra Nobile dunque perché libera da tasse. Un privilegio che molti, forse troppi oggi ci invidierebbero, se non fosse oramai, ahi noi, irrimediabilmente perduto.

In quelle sere si univano a noi gli amici Francesco (dello zu Ignazio Campisi), Walter (della signora Stelladoro, la levatrice) e Antonio (dello zu Giovanni Luciano detto Scimone – di Simone), mio cugino Elio da Roma, in visita con la nonna Maria e la madre Marietta, e gli altri fratelli della nonna, lo zio Corrado e la zia Peppina. Radunati attorno al tavolo grande della sala d’ingresso si giocava a carte, anziani e giovani a sfidarsi in bravura, e quelli a proporre a questi luminagghie (indovinelli) e narrare racconti in cui la realtà si intrecciava all’insegnamento velato. Questo è uno di quelli, che la mia memoria ha pur conservato nel suo scrigno.

Il luogo del racconto era Pachino, più esattamente uno dei quartieri della basalata (il nome gli originava dalla strada su cui si affacciavano, pavimentata con le basole di calcare a quadri, riempiti con ciottoli dello stesso materiale), altrimenti detta la strada dei combattenti per le numerosi liti che scoppiavano fra gli abitanti, d’un tratto, improvvise e terrificanti, come fulmini a ciel sereno.

Ebbene, in uno di questi quartieri, vivevano due giovani che, pur nelle ristrette e anguste condizioni di frequentazione che l’epoca consentiva, si erano innamorati l’uno dell’altra. Bisogna sapere che i giovani di allora non avevano, com’è oggigiorno, la possibilità di incontrarsi, vuoi a scuola o dopo per fare i compiti; vuoi alle feste per ballare e cenare; o alla balata di Marzamemi per prendere lo shortino, dimenandosi in mezzo a una folla assiepata e costipata da una musica assordante. Le poche occasioni d’incontro erano offerte dalla messa domenicale, in cui i due giovani coglievano il privilegio di sfiorarsi all’ingresso e all’uscita del tempio e si cercavano, durante la funzione, con lo sguardo furtivo e fugace, dopo aver scelto con oculatezza un posto da cui potersi intravedere, senza che gli altri se ne accorgessero. Per il resto al ragazzo altro non rimaneva che passare di tanto in tanto davanti alla casa dell’innamorata, la quale gli faceva intuire la sua presenza dal lieve movimento della tendina davanti agli scuri dell’uscio, cercando così entrambi di non destare i sospetti dei rispettivi genitori che, mai e poi mai, avrebbero acconsentito a quell’unione. Le famiglie difatti erano state protagoniste di una di quelle memorabili risse di cui andava famosa la via, con tanto di femmine che, braccia ai fianchi, prima si sfidavano a ingiurie via via più pesanti e poi si accapigliavano, avvinghiandosi fino a strapparsi le vesti; con gli uomini che si sfidavano a coltellate, i vicini che tentavano disperatamente e invano di dividere i contendenti e sedare gli animi; e una folla che seguiva ondeggiante e partecipe quella stranissima danza tribale, in cui il nugolo dei primattori si stringeva e si allargava sciabordando da una parte all’altra della strada, quale uno stormo di uccelli in cielo sotto l’attacco insistente di un’aquila predone in piena guerra di corsa. Dunque mai e poi mai avrebbero acconsentito a quell’unione anche se, a onor del vero, a quel punto non ricordavano neppure quale fosse stato il movente della terribile rissa; tanto futile da non lasciare traccia alcuna nella memoria dei protagonisti.

Costretti in una strettoia senza scampo, i due innamorati si arrovellavano su come inventarsi una via d’uscita, nutrendo una speranza che si affievoliva giorno dopo giorno; alla fine ad avere il colpo di genio, fra i due, fu lei.

Va detto che a Pachino v’è consolidata la bella abitudine di far visita ai propri defunti andando a piedi al cimitero, che si trova a poca distanza fuori dall’abitato. Per chi non è dei luoghi appare davvero strana quella processione di donne, e talvolta anche di uomini, che affollano il bordo della strada, una processione come un lungo rosario ininterrotto, verso quella che è chiamata la casa per sempre.

L’idea era dunque di far visita ai propri defunti, portandovi i fiori acquistati lungo la via e provvedendo alle pulizie: chi dei familiari poteva obiettare qualcosa per una simile pietosa funzione? E chi avrebbe trovato da ridire alcunché se la pietosa funzione fosse stata svolta ogni giorno?

Fu così che i due innamorati poterono incontrarsi in quel luogo di pace e silenzio, con la benevolenza delle famiglie e la loro ammirata soddisfazione, venendo da strade opposte ed entrando da porte diverse, ogni giorno, tutti i giorni là, proprio nella cappella funeraria che, da contenitore mesto e sterile, divenne la loro cappella d’amore.

Tanto tempo fa, quand’ero ancora bambino, avvicinandosi il tempo del Natale, da noi di Terra Nobile era costume radunarsi la sera presso la famiglia di riferimento dove, da racconti come questo, si apprendeva, stupiti, il sottile sapore della vita.